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Italien : La cité scolaire Camille Vernet met en ligne une interview bilingue de Michela Marzano.  Empty Italien : La cité scolaire Camille Vernet met en ligne une interview bilingue de Michela Marzano.

par John Ven 11 Nov 2011 - 23:22
http://www.ac-grenoble.fr/camille.vernet/spip.php?article428

1- Perché ha lasciato l’Italia ? Che cosa ha trovato in Francia che non aveva trovato in Italia ? Il suo caso è rappresentativo della “fuga dei cervelli” ?

All’inizio un po’ per caso. Avevo avuto una borsa di studio dopo aver discusso la mia tesi di dottorato alla Scuola Normale Superiore di Pisa nel settembre del 1998. Poi, una volta in Francia, ci sono rimasta. Ho avuto un posto come chargée de recherche al CNRS. Poi ho passato l’HDR e oggi sono professoressa di filosofia all’Università Paris Descartes. Non mi considero un cervello in fuga, perché ho orrore di questa espressione. Non sono un "cervello" ma una persona. E poi non mi considero in fuga. Anche se qui in Francia sto molto bene ed ho avuto molte opportunità lavorative che forse non avrei avuto se fossi rimasta in Italia. Ho potuto lavorare sul corpo umano e sulla sessualità femminile, temi ancora "tabù" in Italia. Ma non è sempre facile vivere e lavorare lontano dal proprio paese. Tanto più che c’è il problema della lingua. Io oggi scrivo forse meglio in Francese che in Italiano. Ma all’inizio non è stato facile. Il linguaggio filosofico deve essere preciso e non ci si può permettere di essere approssimativi

2. Se dovesse rispondere direttamente alla domanda del nostro sito : “où sont les femmes ? ”, cosa risponderebbe per quanto riguarda l’Italia : tra la casalinga e la velina, [2] Dove sono le donne italiane ?

Per una donna italiana, non è facile trovare la propria strada e, soprattutto, essere "visibile". Soprattutto in questi ultimi anni… Che si tratti delle rappresentazioni degradanti dei media o del linguaggio sessista utilizzato da alcuni uomini politici, il risultato è sempre lo stesso : ridimensionare la donna, ricordandole come il suo posto “naturale” sia accanto all’uomo, taciturna e consapevole della superiorità maschile. In fondo, il sistema della politica e il sistema televisivo si intrecciano a meraviglia e riflettono una visione molto precisa dei ruoli di genere. L’uso della parola spetta agli uomini. Le donne devono limitarsi ad essere belle e tacere. Certo, con questo non voglio dire che, negli altri paesi europei, l’immagine che i media danno della donna sia sempre rispettosa e degna. In tutto il mondo, la pubblicità utilizza il corpo femminile per vendere prodotti di ogni sorta. Un po’ dovunque, nell’universo della televisione e della moda, si abusa delle rappresentazioni eccentriche e provocatrici dei corpi femminili… Quello che voglio dire è che, negli altri paesi occidentali, a differenza di quanto accade in Italia, la donna non è solo questo ; non è soltanto una bambola bella e taciturna che permette agli uomini di sfoggiare la propria superiorità. Tanto più che tutte coloro che coloro che chiedono di essere rispettate vengora spesso trattate come “isteriche”, “frustrate”, “radical-chic”… Un modo come un altro per farle tacere. Insultandole in modo volgare. Oppure anche solo con una battuta. Poco importa il tono. Quello che conta è ferirle perché tacciano. E in genere, il risultato che si ottiene è proprio questo : il silenzio. Un silenzio che si trasmette di generazione in generazione e che spinge molte di noi ad introiettare l’immagine negativa che ci viene rinviata di noi stesse.

3. Perché la condizione femminile si evolve così lentamente in Italia, e anzi sembra regredire, rispetto agli anni Settanta ? Secondo Lei, quali sono le prospettive future per le donne italiane ?

Nella vita di ognuno di noi esistono molte cose che non si possono cambiare. Nessuno sceglie la propria famiglia, il proprio paese, il milieu sociale e culturale in cui evolve. Ognuno ha delle caratteristiche ben precise con cui deve, volente o nolente, apprendere a convivere. Dei punti di forza e tante fragilità e debolezze. Tutto dipende, però, da quello che si riesce a fare di queste fragilità, delle ferite che abbiamo ricevuto, delle “faglie” che ci rendono vulnerabili di fronte agli altri. La vita non è mai un destino interamente tracciato. Anche se le esperienze che abbiamo fatto lasciano un’impronta, anche se la “coazione a ripetere” quello che conosciamo e abbiamo vissuto è forte. Si può sempre “rompere il cerchio con una risata”, come diceva Virginia Woolf. Ma si può (e si deve) poterlo rompere anche con l’aiuto delle parole. Se il linguaggio è spesso uno strumento di asservimento, altre volte può diventare un luogo di scontro. Come scrive la femminista americana bell hooks : “Le nostre parole sono azioni, resistenza”. È attraverso le parole che si deve cominciare a rifiutare il “dover essere donna” secondo una serie di regole e di norme socio-culturali. È attraverso le parole che si può difendere “l’essere” molteplice e variegato di ognuna di noi e proteggere la nostra “differenza”. “Stare insieme alle donne non era abbastanza, eravamo diverse”, scrive Audre Lorde. “Stare insieme alle donne gay non era abbastanza, eravamo diverse. Stare insieme alle donne nere non era abbastanza, eravamo diverse. Ognuna di noi aveva i suoi propri bisogni ed i suoi obiettivi e tante e diverse alleanze. C’è voluto un bel po’ di tempo prima che ci rendessimo conto che il nostro posto era proprio la casa della differenza”.

4. Lei è favorevole a una legge che imponga delle quote di donne nei consigli di amministrazione delle grandi imprese ?

Esistono molte proposte per migliorare la situazione delle donne nel campo lavorativo e facilitare la loro presenza nella sfera pubblica. La più celebre è quella che prevede l’attivazione delle cosiddette “azioni positive” (affermative actions). L’idea è semplice : opporre alle discriminazioni esistenti una forma di “discriminazione positiva” allo scopo di favorire temporaneamente le donne. Si tratterebbe di permettere loro di avanzare e progredire in un settore determinato (nel mondo del lavoro, ma anche in politica) in modo da rendere effettivo l’accesso alle pari opportunità. L’esempio paradigmatico è l’adozione di “quote rosa”, come è stato previsto in Italia dalla nuova legge elettorale, per obbligare i partiti a inserire in lista almeno un terzo di rappresentanti femminili. Ma è veramente necessario “discriminare” per “uguagliare” ? E, soprattutto, basta “imporre” delle quote perché l’uguaglianza diventi effettiva ? Anche se sono convinta che esistano degli ostacoli di ordine amministrativo, economico e sociale che impediscono all’uguaglianza uomo/donna di realizzarsi una volta per tutte, non sono del tutto certa che la “discriminazione positiva” sia la miglior soluzione. Non basta “iscrivere” su una lista elettorale mogli, figlie, nipoti o amanti perché i problemi delle donne siano realmente risolti. Anzi, si rischia di confondere “quantità” e “qualità”, rispettando semplicemente da un punto di vista formale un’uguaglianza che, nella realtà di tutti i giorni, non esiste. Non è un caso che, nei paesi scandinavi – che vengono spesso citati come l’esempio da seguire perché, avendo introdotto queste “quote rosa”, avrebbero ottenuto una buona rappresentanza politica femminile –, il vero decollo in termini di rappresentanza politica delle donne sia avvenuto negli anni Settanta, cioè ben prima che si introducessero queste quote, quando già la mentalità generale era cambiata. Come spiegava già Montesquieu, nel 1748, quando si vogliono cambiare i costumi di una società e modificarne i comportamenti, non ci si deve illudere : il modo migliore non è cambiare le leggi, ma agire a livello sociale e, solo in un secondo momento, modificare anche le leggi

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